* * *
Per, lo diletto ch'ebbe lo re Carlo d'Orlandino quando tolse la tazza ridendo comandò che ogni volta fusse lasciato entrare. E l'altra mattina Orlandino tornò a la città; e andò acattando, e non gli era data limosina; ognuno gli diceva: - Vanne alla corte. - E andò alla corte. E quando fu il tempo, entrò in su la sala; e fuvvi dinanzi che Carlo si ponesse a tavola, e posesi in uno canto della sala; e molti lo guatavano e dicevano infra loro: - Egli s'avezza a furare. - L'altro dicea: - Egli è gaglioffo di nidio. - Alcuno diceva: - Egli sarà ancora "impendu" per la gola. - Ognuno diceva la sua; e quando venne la vivanda, fece come aveva fatto il dì dinanzi e gli tolse la tazza. E fino barone nel fuggire si gli parò dinanzi; egli gli dié d'urto per modo che cadde, ed egli ne portò la tazza con la carne. Vedendo Carlo il grande ardire e la grande forza del fanciullo, disse, presente la baronia: - Per certo che questo fanciullo debbe essere figliuolo di qualche povero gentile uomo, e non è meno che grande fatto questo segno. - E poi disse: - Stanotte m'apparì una strana visione. Io sognai che noi stavamo in campo contro a molti animali, e pareva di avere perduta la battaglia della mia gente, e uno dragone venne meco alle mani e in tutto mi disarmò, in tanto che per suo cibo mi voleva divorare. E uno lioncello usciva d'una grotta, che era in un bosco, e uccise quello dragone e liberommi; e tornava con vettoria dalla mia gente. - Per queste parole fu tra' baroni uno grande mormoramento. Molti dicevano: - Parole d'imperio e sogno d'imperadore non sono sanza grande sentenzia. - E con queste parole Carlo si levò da tavola e andossene in camera; e mandò per lo duca Namo e per Salamone e per lo valente Uggieri Danese, poi ch'ebbe mangiato.
|