NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


Pagina 717
1-40- 80-120- 160-200- 240-280- 320-360- 400-440- 480-520- 560-600- 640-680- 720-745

[Indice]

     La mattina per tempo il Pilucca, per dar principio a dover colorire il trovato disegno, scritto e contraffatto una richiesta, tolse uno di quei lavoratori dell'Opera di Santa Maria del Fiore là dove era maestro, il quale' era scarpellino, di poco tornato da Roma, con una barbetta affumicata che proprio pareva un burro; e messoli una spadaccia ai fianchi, lo mandò a casa Gian Simone, avvertitolo et insegnatoli quel che avesse a fare e a dire. Il quale, picchiato all'uscio e entrato dentro, se n'andò in camera, guidato dalla serva, e la polizza pose in mano a Gian Simone, il quale domandandoli da chi veniva, gli fu da colui risposto: - Leggi e vedrailo - ; e così detto, senza altro, dimenato un tratto la cultella, acciocché Gian Simone la vedesse, dette la volta indietro. Gian Simone, udendo così pessima risposta, e veggendo a colui l'arme, s'indovinò subito che fusse un messo; e doloroso, deliberò appunto di levarsi; e così nel letto essendo, aperto la finestra, quella richesta lesse, la quale così diceva: - Per parte e comandamento del Rev. Vicario dell'Arcivescovo di Firenze si comanda a te Gian Simone berrettaro, che veduta la presente ti debba infra tre ore rappresentare nella Cancelleria di detto Vescovado, sotto pena di scomunicazione e di cento fiorini d'oro. - E nella sottoscritta, sapendolo, messo aveva il Pilucca il nome del cancelliere, et acconciolla con un suggello scancellaticcio, che non si scorgeva quello che vi fusse impresso, quasi fatto in fretta, come s'usa talvolta. Rimase pieno di maraviglia e di doglia Gian Simone, fra sé pensando che cosa essere potesse questa; et intanto, fattosi dalla donna portare i panni, si vestì, essendo risoluto d'uscir la mattina fuora a ogni modo; e disse: - Vedi che io uscirò di casa per qualcosa! che diavolo ho io a fare col vicario? io so pure che io non ho da dividere nulla né con preti né con monache: io non posso intendere. - Intanto lo Scheggia, che stava alla posta, temendo che non uscisse fuora, picchiò l'uscio, e fugli aperto; ma non fu prima in camera, ch'ei cominciò quasi piangendo a dire: - Or siamo noi ben rovinati da dovero: non ci è più riparo: oh infelici! oh miseri noi! chi l'avrebbe mai stimato? in fine, se io scampo di questa, mai più m'impiccio né con maliardi né con stregoni: che maledetti sieno i negromanti e la negromanzia! - Lo aveva più volte pregato Gian Simone che dir li volesse la cagione del suo rammarico; ma lo Scheggia, seguitando il suo ragionamento, non gli aveva mai risposto. Onde colui, sentendosi ricordare i negromanti, gridò: - Scheggia, di grazia, dimmi cio che tu hai di male, e chi ti fa guaire. - Una cosa, rispose tosto lo Scheggia, che non può esser peggio, così per voi come per me. - Ohimé! che sarà di nuovo? disse Gian Simone. E voleva mostrarli la richiesta, quando lo Scheggia disse: - Vedete voi? questa è una citazione del vicario. - Ohimé! rispose Gian Simone - eccone un'altra. - Da questo viene ora, seguitò lo Scheggia, la mia e la vostra rovina. - E in che modo? - soggiunse Gian Simone: - narrami tosto come sta la cosa. - Onde lo Scheggia così mestamente favellando, prese a dire: - Il Monaco vostro compare, portato, come voi sapete, per l'aria dai diavoli, non ha mai restato, come colui che fuor di modo gli preme la cosa; tanto che dal Pilucca ha inteso il caso appunto appunto, e come voi et io ne siamo principal cagione, e che tutto fu fatto perché vedeste il segno; della qualcosa di Monaco adirato e colloroso, se n'andò iersera a trovare il vicario, e gli contò il caso, et il Pilucca raffermò e testificò per la verità in suo favore. Laonde il vicario, parendogli la cosa brutta, subito volle far fine le richieste: ma perché egli era tardi, e non vi essendo il cancelliere, indugiò a stamattina: così ho inteso or ora da un prete che sta col vicario, molto mio amico: sicché vedete dove noi ci troviamo. - E par questa sì gran cosa - rispose Gian Simone - che tu debba pigliare tanto dispiacere et avere tanta paura? che abbiamo noi però fatto? - Che abbiamo fatto? - soggiunse lo Scheggia, voi lo sent irete: noi abbiamo fatto contro la Fede, la prima cosa, a credere agl'incanti e cercare per via di diavoli di vituperare una nobile costumata donna; e dopo, fatto portar pericolo al Monaco della vita, sendo venuto per l'aria tanta via, cosa ancora che per la paura egli spuntasse, o che il Diavolo gli entrasse addosso: tutte cose che importano la vita. Rendetevi certo che, se noi ci rappresentiamo al vicario, tosto saremo messi in prigione; e confessando la cosa, portiamo pericolo del fuoco; ma avendo la riprova, non possiamo negare, e il meno che ce ne intervenga, sarà stare in gogna, o andare sur un asino e con una buona condannazione, e forse, toltoci tutta la roba, confinati in un fondo di torre per sempre e forse peggio: ohimé! vi par forse poco questo? - E nella fine di queste ultime parole artificiosamente si lasciò cadere tante lacrime dagli occhi, che fu una maraviglia; e piangendo diceva: - Ohimé, misero Scheggia; va ora a comprare la casa: se tu avessi testé i danari maneschi, potresti tu fuggirtene, come farà il negromante tosto che intenderà il caso, ché son certo che non vorrà aspettare questa pollézzola al forame.


[Pagina Precedente] - [Indice] - [Pagina Successiva]