Ma ben s’appose il Gregorio dicendo che questa pace avea più presto sembianza di convenzione da masnadieri, i quali, spogliato un viandante, dividonsi fra loro il bottino. Si convenne di restituirsi scambievolmente le terre e le castella usurpate: ma si convenne ugualmente di ritenere ognun di essi le città e le rendite del demanio; sulle quali obbligaronsi i Chiaramonti a pagare mille once all’anno al re, ed oltracciò ottennero che due dei giudici della gran corte dovessero essere scelti da quelle due famiglie; ed è naturale il supporre che gli altri due erano scelti dalla contraria fazione. Eppure questa pace fu dal re stesso promulgata. Ma le restituzioni non ebbero luogo; le onze mille non furon pagate; e i Chiaramonti e’ Ventimiglia vennero a tale arroganza, che eressero dalla parte loro un tribunale di gran corte affatto separato ed indipendente da quello del re. Eppure osaron mandare al re alcune doglianze d’infrazione della pace, fatta dalla contraria fazione, alle quali il re rispose in tuono così dimesso da destar compassione e renderlo sempre più spregevole.
Da questa pace fu escluso il solo Manfredi Chiaramonte che ostinatamente tenea Messina per la regina Giovanna. Costui sicuro che il re si sarebbe tosto rivolto con tutte le forze del regno contro di lui, e non fidandosi nè della volontà de’ Messinesi, nè del valore de’ Napolitani, che eran di presidio, lasciata Messina, ritirossi in Calabria. Nè guari andò che Messina, morto il nuovo governatore destinatovi dalla regina, ritornò all’obbedienza del re, per opera principalmente dello stesso Manfredi Chiaramonte: in merito di che tornò in grazia del re, e non che restituirgli tutti i suoi beni fu promosso all’eccelsa carica di grand’ammiraglio del regno.
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