Giuseppe Savini
Ricordi della vita di Bernardo Savini


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     Ed il cuore materno non s'ingannò. Come cacciatore, Bernardo teneva un cane, a cui aveva posto nome Belgrado, e che amava alla follia. Questo cane, morso da altro cane, divenne idrofobo, e benché, come fanno tutti i cani, fuggisse tosto dal padrone, pure questi credé che senz'essersene accorto ne fosse stato morso, e più fu turbato dal timore che altri ne potessero essere morsi, e quindi essere egli la causa del male altrui. Tutto ciò lo gittò in tali spasmodiche apprensioni, che solo chi le ha patite sa quanto siano orribili. Eppure più occupato dell'altrui danno che del suo, come fu sempre per tutta la sua vita, oltre d'aver mandato molti dei suoi contadini sulle tracce di quel cane per farlo ammazzare, stette egli stesso più giorni e più notti appostato col fucile in mano aspettando che passasse per di là per ucciderlo. E dopo tanti anni ci narrava egli stesso lo strazio indicibile dell'animo suo, quando considerava sé stesso desideroso di toglier la vita a quell'animale, in cui aveva concentrato tanto affetto dell'animo suo.
     Ma non so come si trovasse una piccola ferita al piede; questa egli credé prodotta dal morso del suo Belgrado, ed agitandovi intorno la fantasia, riuscì al punto d'inacerbire quella ferita e produrvi un'irritazione lunghissima. Allora si concentrò tutto in questa sua apprensione, e sciaguratamente si andò a rinchiudere in quella solitudine assoluta della villeggiatura, dove isolato, senza compagnia, senza distrazione, svogliato dal più studiare o dipingere, non pensando che alla temuta idrofobia e non trovando più piacere in nulla, soffrì pene acutissime, che solo la profonda religione che professava poté dargli forza di tollerare. Simili apprensioni soffrì pure Giuseppe Giusti, e furon tali che per lunghi anni gli spensero l'ingegno e la vena poetica, e forse gli avvicinarono la morte.