Al muro: ché non era per muoversi. Di che Lapaccio si comincia a versare, dicendo: - Deh, morto. sia tu a ghiado, che tu dèi essere uno rubaldo.
E recandosi alla traversa con le gambe verso costui, e poggiate le mani alla lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sì di netto che il corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave, e con sì gran busso, che Lapaccio cominciò fra se stesso a dire: "Oimè! che ho io fatto?" e palpando il copertoio si fece alla sponda, appié della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente: - Sta' su; ha'ti tu fatto male? Torna nel letto.
E colui cheto com'olio, e lascia dire Lapaccio quantunche vuole, ché non era né per rispondere, né per tornare nel letto.
Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui, e veggendo che non si dolea, e di terra non si levava, comincia a dire in sé: "Oimè sventurato! che io l'avrò morto". E guata e riguata, quanto più mirava, più gli pareva averlo morto; e dice: "O Lapaccio doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io andare! ma io non so donde, ché qui non fu' io mai più. Così foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io sto, serò mandato a Ferrara o in altro luogo, e serammi tagliato il capo. Se io il dico all'oste, ebbi vorrà che io moia in prima ch'elli n'abbia danno". E stando tutta notte in questo affanno ed in pena, come colui che ha ricevuto il comandamento dell'anima, la mattina vegnemte aspetta la morte.
Apparendo l'alba del dì, li romei si cominciano a levare ed uscir fuori. Lapaccio, che parea più morto che 'l morto, si comincia a levare anco elli, e studiassi d'uscir fuora più tosto che poteo per due cagioni, che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo, ed andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse; la seconda per dilungarsi dal morto, e fuggire l'ubbìa che sempre si recava de' morti.
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