Qui finisce la Leggenda di San Paolo primo eremita. Deo gratias.
JACOPO PASSAVANTI
TESTIMONIANZE DELL'INFERNO
L
EGGESI che a Parigi fu uno maestro che si chiamava Ser Lo, il quale insegnava loica e filosofia, e avea molti iscolari, intervenne che uno de' suoi iscolari, tra gli altri, arguto e sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì: e dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo iscolaro morto gli apparì; il quale il maestro riconoscendo, e non sanza paura, domandò quello che di lui era: rispose ch'era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello 'nferno erano gravi come si dicea; rispose, che infinitamente maggiori, e che colla lingua non si potrebbono contare, ma che gliene mostrerebbe alcuno segno. Vedi tu, dissegli, questa cioppa piena di soffismi, della quale io paio vestito? questa mi pesa e grava più che s'io avessi la maggiore torre di Parigi o la maggiore montagna del mondo in su le spalle, e mai nolla potrò por giù. E questa pena m'è data dalla divina giustizia per la vanagloria ch'io ebbi del parermi saper più che gli altri, e spezialmente di sapere fare sottili soffismi, cioè argomenti, da vincere altrui disputando. E però questa cioppa della mia pena n'è tutta piena; però che sempre mi stanno dinanzi agli occhi a mia confusione. E levando alta la cappa, ch'era aperta dinanzi, disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? tutta è bracia, e fiamma d'ardente fuoco pennace, il quale sanza veruna lena m'arde e mi divampa. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuailo infino alla morte sanza pentimento o proponimento di rimanermene. Onde, con ciò sia cosa ch'io perseverassi nel peccato sanza termine e sanza fine, e averci voluto più vivere per più potere peccare; degnamente la divina giustizia m'ha dannato, e tormentando mi punisce sanza termine e sanza fine. Eimè lasso! che ora intendo quello che, occupato nel piacere del peccato e inteso a' sottili soffismi della loica, non intesi, mentre ch'io vivetti nella carne: cioè per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello 'nferno sanza fine all'uomo per lo peccato mortale. E acciò che la mia venuta a te sia con alcuno utile ammaestramento di te, rendendoti di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro. La quale il maestro porgendo, lo scolaro iscosse il dito della sua mano ch'ardea, in su la palma del maestro, dove cadde una picciola gocciola di sudore e forò la mano dall'uno lato all'altro con molto dolore e pena, come fosse stata una saetta focosa et aguta. Ora hai il saggio delle pene dello 'nferno, disse lo scolaro; e urlando con dolorosi guai, sparì. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata e arsa; né mai si trovò medicina che quella piaga guarisse, ma infino alla morte rimase così forata: donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E 'l maestro compunto, tra per la paurosa visione e per lo duolo, temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali avea il saggio, diliberò d'abbandonare la squola e 'l mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali, entrando la mattina vegnente in isquola, davanti a' suoi iscolari, dicendo la visione e mostrando la mano forata e arsa, ispose e disse:
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