Opere di letteratura italiana e straniera |
Ippolito che non era punto con manco fuoco di lei, sanza dire alcuna parola, conoscendo non poter vedere quella ch'egli sempre teneva scolpita nel cuore, di dolore e malinconia tutto si consumava, per modo che ogni piacere gli era tornato in tedio. Ed abbandonati gli suoi amici e compagni poco usciva di camera; anzi sempre sanza alcuna consolazione si stava in sul letto bestemmiando la crudele disposizione de' fati, maledicendo la perfida inimicizia paterna. - Ahi fiero e crudo amore ingrato di tanta umiltate quanta è stata la mia, che 'l primo giorno che ti piacque mi sottomisi al tuo giogo! Perché di tante pulcelle quante bellissime sono nella nostra città non mi hai messo nel cuore l'amore come di questa, dove tu, come aspro e crudele insieme, a lei e a me fai abbondare angosciosi pensieri! Questo certo da te non meritava la nostra fede! Maladetto sia il giorno che gli occhi miei guardarono tanto alto, poi che di lì nascere dovevano tanti tormenti e tanti martiri. Oh dispietata fortuna! Come sofferisci tu che la mia tenera gioventù in lacrime si consumi? Certo io veggio la mia vita finire per l'amore di quella che tanto m'ama. Piacciavi o fati cavarmi da questi martiri, perché assai più mi duole l'affanno della mia singulare Dea che 'l mio! - E fra sì dolorosi pensieri il nobile giovine la sua vita consumava; e raro usciva di casa, perché nulla gli gravava altro che il non potere vedere la ninfa amata; dove non osava passare da casa di costei pel gran timore dell'ardua nimicizia. Di che Ippolito sentendosi crescere l'amore e mancare la speranza, cominciò per la grande malinconia a perdere il sonno; anzi sempre aveva ogni suo pensiero a Leonora. E già essendogli venuto a noia il cibo, si mutò tutto di complessione in modo, che dove egli era il più allegro, festivo, lieto, giocondo, faceto Giovane di Firenze, più bello più fresco più universale, in breve tempo divenne malinconico, magro, solitario, pallido doloroso e saturnino più che altro della città. E in fine, mancandogli li sentimenti naturali, divenia di giorno in giorno più simile ad un uomo morto che vivo; della quale cosa 'l padre e la madre erano molto dolenti. E cercato da' medici quale fosse la cagione di tanta mutazione, non trovavano altro che continua malinconia che nocesse al Giovane. Di che non potendo sapere che gli gravasse, né d'onde la malinconia procedesse, Ippolito cominciò fortemente a gravarsi nel male; intanto che pigliando poco di conforto e consumandosi dallo affanno, i medici lo difidarono dicendo, - che se la cagione de' suoi pensieri non si trovava, non era possibile dargli rimedio; e non rimediando, che in breve tempo se ne morirebbe. Di.questo i suoi assai ne furono dolenti, massime il suo padre e la sua madre, li quali non avevano altro figliuolo né altro bene: e tanto più gli doleva quanto non sappendo il male non lo potevano aiutare, onde che la sua madre la quale portava gran pena del male del figliuolo, cercò con molti ingegni di sapere da lui quale fosse la cagione di tanta malinconia. E in fine trovando il figliuolo duro e pertinace nel negare e nel tacere, vinta da materno amore, in carnera, sola col suo figliuolo con molte lagrime cominciò così a parlare: - Ippolito io non so se ti ricorda degli affanni che io ho portati per allevarti, e dei caldi, freddi, fame, sete, sonni e vigilie ho patite per tuo amore, e per allevarti in più delicatezze e costumi che mai figliuolo fusse allevato; e per molto maggiore mio dolore già sono diciott'anni che mai madre fu più contenta di suo figliuolo che sono stata io di te, non aspettando già quest'empi colpi di fortuna; ed assai appagata io mi teneva dell'amore ti portava, veramente credendo che tu mi avessi in luogo di madre, in amore e in riverenzia. Della qual cosa la tua durezza e pertinacia mi fa in tutto certa del contrario, che a me vuogli tenere celato il tuo dolore, acciocchè non si possa rimediare al male. Anzi per maggior mia pena vuogli che io possa piangere la cagione della morte tua. - E al figliuolo con molte lagrime e assai teneramente piena di do
lore mostrandogli il petto disse: Caro figliuolo risguarda il ventre che nove mesi con tanto affanno ti portò; vedi il petto che con tanto amore del suo latte ti nutricò; vedi le braccia che tanto tempo con dolce e soave peso ti sollevarono; muovati dunque compassione delle lacrime, pianti, lamenti e sospiri della tua misera madre; e quella pietà che non hai dite, abbi di me, ché certo in questa infelice e misera vita senza te delibero non stare! Non volere essere ad un punto cagione insieme della tua e mia di vita perdizione; ma più presto o dolce e caro figliuolo mio riserva l'una e l'altra! Piacciati vita mia non mi fare più in lacrime consumare! Dimmi adunque o cara speranza, quale è la cagione di tanta malinconia che ti grava in sì duro male; se no qui vedrai alla tua presenzia di dolore creparmi il cuore! Dolcissimo figliuolo, poi che non ti curi del morire, almeno la tua dolente madre ti sia raccomandata! Che quest'ultima domanda non mi sia negata! Tempera ormai le lacrime della infelice madre e non mi lasciare senza contento dell'ultima domanda. - E continuamente mescolando con le parole lacrime e sospiri aspettava che risposta il figliuolo le desse. Ippolito benché nel cuore solo avesse la sua amata Leonora, mosso da materna tenerezza, volti li languenti occhi verso l'affannata madre, senza alcuna lacrima con costante animo disse: - Madre: assai mi stringe e pesa. il dolore vostro a pari del mio; ma poiché la crudele fortuna ha disposto nella mia gioventute tormi la vita, vi conforto a pazienzia, e priegovi non vogliate in maggiore dolore farmi la morte più dura! Bastimi le pene mie, onde che essendo il mio male irreparabile delle mie membra sazierò il crudelissimo fato. Dolce madre, vogliate accordarvi col volere d'essa fortuna, e non cercate di sapere quello che v'abbi a crescere di duolo. E poi che al corpo non potete dare alcuno aiuto, non vogliate aggravare l'anima con maggiore dolore! - E dette queste parole con gli occhi abbondanti di lacrime si voltò dall'altro lato del letto. La madre vedendo la durezza del figliolo e pertinacia, con altro modo cominciò di sapere il fatto: - Ippolito - diss'ella - che più figliolo non ti voglio addimandare, già questa risposta non aspettava io da te. Ma poi che di me ti cale sì poco, maledetto sia quanto affanno per te sostenni, e il latte che ti nutricò! E poi che 'l morire ti giova per lasciarmi male contenta, da me mai sarai benedetto; e così l'anima tua col corpo vada con la mia maledizione.
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