NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


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     LUDOVICO ARIOSTO

     LA NOVELLA DI FIAMMETTA

     A
     STOLFO, re de' Longobardi, quello
     A cui lasciò il fratel monaco il regno,
     Fu nella giovinezza sua sì bello,
     Che mai poch'altri giunsero a quel segno.
     N'avria a fatica un tal fatto a pennello
     Apelle o Zeusi, o se v'è alcun più degno.
     Bello era, ed a ciascun così parea;
     Ma di molto egli ancor più si tenea.

     Non stimava egli tanto per l'altezza
     Del grado suo, d'avere ognun minore;
     Né tanto, che di genti e di ricchezza,
     Di tutti i re vicini era il maggiore;
     Quanto, che di presenzia e di bellezza
     Avea per tutto 'l mondo il primo onore.
     Godea, di questo udendosi dar loda,
     Quanto di cosa volentier più s'oda.

     Tra gli altri di sua corte avea assai grato
     Fausto Latini, un cavalier romano;
     Con cui sovente essendosi lodato
     Or del bel viso or della bella mano,

     Ed avendolo un giorno domandato
     Se mai veduto avea, presso o lontano,
     Altro uom di forma così ben composto;
     Contra quel che credea, gli fu risposto.

     Dico (rispose Fausto) che, secondo
     Ch'io veggo, e che parlarne odo a ciascuno,
     Nella bellezza hai pochi pari al mondo;
     E questi pochi io li restringo in uno.
     Quest'uno è un fratel mio, detto Giocondo.
     Eccetto lui, ben crederò ch'ognuno
     Di beltà molto addietro tu ti lassi;
     Ma questo sol credo t'adegui e passi.

     Al re parve impossibil cosa udire,
     Ché sua la palma infin allora tenne;
     E d'aver conoscenza alto desire
     Di sì lodato giovene gli venne.
     Fe' si con Fausto, che di far venire
     Quivi il fratel prometter gli convenne:
     Bench'a poterlo indur che ci venisse
     Sana fatica, e la cagion gli disse:


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