NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


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     Che 'l suo fratello era uom che mosso il piede
     Mai non avea di Roma alla sua vita,
     Che, del ben che fortuna gli concede,
     Tranquilla e senz'affanni avea notrita;
     La roba di che 'l padre il lasciò erede,
     Né mai cresciuta avea né minuita;
     E che parrebbe a lui Pavia lontana
     Più che non parria a un altro ire alla Tana.

     E la difficoltà sana maggiore
     A poterlo spiccar dalla mogliere,
     Con cui legato era di tanto amore,
     Che non volendo lei, non può volere.
     Pur, per ubbidir lui che gli è signore,
     Disse d'andare e fare oltre il potere.
     Giunse il re a' prieghi tali offerte e doni,
     Che di negar non gli lasciò ragioni.

     Partisse, e in pochi giorni ritrovosse
     Dentro di Roma alle paterne case.
     Quivi tanto pregò, che 'l fratel mosse
     Si, ch'a venire al re gli persuase:
     E fece ancor (benché difficil fosse)

     Che la cognata tacita rimase,
     Proponendole il ben che n'usciria,
     Oltre ch'obbligo sempre egli l'avria.

     Fisse Giocondo alla partita il giorno:
     Trovò cavalli e servitori intanto;
     Vesti fe' far per comparire adorno;
     Ché talor cresce una beltà un bel manto.
     La notte a lato e 'l dì la moglie intorno,
     Con gli occhi ad or ad or pregni di pianto,
     Gli dice che non sa come patire
     Potrà tal lontananza, e non morire;

     Ché pensandovi sol, dalla radice
     Sveller si sente il cor nel lato manco.
     Deh, vita mia, non piagnere, le dice
     Giocondo: e seco piagne egli non manco.
     Così mi sia questo cammin felice,
     Come tornar vo' fra duo mesi almanco:
     Né mi faria passar d'un giorno il segno,
     Se mi donasse il re mezzo il suo regno.

     Né la donna per ciò si niconforta:


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