NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


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     Mandi famigli, mandivi altra gente,
     S'egli medesmo non vi va in persona.
     Si ferma, e al fratel dice: Or pianamente
     Fin a Baccano al primo albergo sprona;
     Ché dentro a Roma è forza ch'io rivada:
     E credo anco di giungenti per strada.

     Non potria fare altri il bisogno mio:
     Né dubitar, ch'io sarò tosto teco.
     Voltò il ronzin di trotto e disse: Addio;
     Né de' famigli suoi volse alcun seco.
     Già cominciava, quando passò il rio,
     Dinanzi al Sole a fuggir l'aer cieco,
     Smonta in casa; va al letto: e la consorte
     Quivi ritrova addormentata forte.

     La cortina levò senza far motto,
     E vide quel che men veden credea;
     Ché la sua casta e fedel moglie, sotto
     La coltre, in braccio a un giovene giacea.
     Riconobbe l'adultero di botto,
     Per la pratica lunga che n'avea;
     Ch'era della famiglia sua un garzone,

     Allevato da lui, d'umil nazione.

     S'attonito restasse e mal contento,
     Meglio è pensarlo e farne fede altrui,
     Ch'esserne mai per far l'esperimento
     Che con suo gran dolor ne fe' costui.
     Dallo sdegno assalito, ebbe talento
     Di trar la spada e ucciderli ambedui;
     Ma dall'amor che porta, al suo dispetto,
     All'ingrata moglier, gli fu interdetto.

     Né io lasciò questo ribaldo amore
     (Vedi se sì l'avea fatto vassallo)
     Destarla pur, per non le dar dolore,
     Che fosse da lui colta in sì gran fallo.
     Quanto poté più tacito uscì fuore,
     Scese le scale, e rimontò a cavallo;
     E punto egli d'amor, così lo punse,
     Ch'all'albergo non fu, che 'l fratel giunse.

     Cambiato a tutti parve esser nel volto;
     Vider tutti che 'l cor non avea lieto:
     Ma non v'è chi s'apponga già di molto,


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