NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


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     Ch'un nano avviticchiato era con quella;
     Ed era quel piccin stato sì dotto,
     Che la regina avea messa di sotto.

     Attonito Giocondo e stupefatto,
     E credendo sognarsi, un pezzo stette;
     E quando vide pur, ch'egli era in fatto,
     E non in sogno, a sé stesso credette.
     A uno sgrignuto mostro e contraffatto
     Dunque, disse, costei si sottomette,
     Che 'l maggior re del mondo ha per marito,
     Più bello e più cortese? Oh che appetito!

     E della moglie sua, che così spesso
     Più d'ogni altra biasmava, ricordosse,
     Perché 'l ragazzo s'avea tolto appresso;
     Ed or gli parve che scusabil fosse.
     Non era colpa sua più che del sesso,
     Che d'un solo uomo mai non contentosse:
     E s'han tutte una macchia d'uno inchiostro,
     Almen la sua non s'avea tolto un mostro.

     Il dì seguente, alla medesima ora,
     Al medesimo loco fa ritorno;

     E la regina e il nano vede ancora,
     Che fanno al re pur il medesmo scorno.
     Trova l'altro dì ancor che si lavora,
     E l'altro; e alfin non si fa festa giorno;
     E la regina (che gli par più strano)
     Sempre si duol che poco l'ami il nano.

     Stette fra gli altri un giorno a veder, ch'ella
     Era turbata e in gran malenconia,
     Ché due volte chiamar per la donzella
     Il nano fatto avea, né ancor venia.
     Mandò la terza volta; et udì quella,
     Che: Madonna, egli giuoca; riferia;
     E per non stare in perdita d'un soldo,
     A voi niega venire il manigoldo.

     A sì strano spettacolo Giocondo
     Rasserena la fronte e gli occhi e il viso;
     E, quale in nome, diventò giocondo
     D'effetto ancora, e tornò il pianto in riso.
     Allegro torna e grasso e rubicondo,
     Che sembra un cherubin del paradiso;


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