Felice Venosta
CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA
(o LA SPEDIZIONE DI SAPRI)


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     Ai confini del Tirolo, il Pisacane ebbe a sostenere diversi scontri coll'Austriaco, riportandone sempre somma lode di virtù e di coraggio. Lieto sen viveva sulle sorti della patria, quando la notizia degli eccidi e dei tradimenti accaduti il 15 maggio in Napoli, venne ad amareggiargli alquanto l'animo.
     Il Borbone, comechè l'11 febbraio altamente dichiarasse di voler accordare a' suoi popoli liberi ordinamenti e mantenere loro una sana costituzione, non aveva, il truculento, che cercato cogli intrighi e colle iniquità proprie della sua schiatta di guadagnare tempo, covando nel nero petto il modo di distruggere quella Costituzione che molto abborriva. E più il popolo rispondeva con dimostrazioni e proteste, e vieppiù desso e i suoi sgherri con ogni sorta di trame, con tutte le arti più perfide preparavano la controrivoluzione. Con un decreto del 5 di aprile, Ferdinando aveva accordato ai deputati il diritto di svolgere e modificare lo Statuto. L'assemblea doveva radunarsi solennemente il 15 maggio. Il giorno 14 mentre i deputati di tutte le provincie si erano raccolti in adunanza preparatoria nel palazzo comunitativo di Mont'Oliveto, fu presentata loro una formola di giuramento che toglieva le facoltà concesse dal decreto del 5 aprile, e sanzionava implicitamente l'infame guerra contro la Sicilia. I deputati rigettarono questa formola unanimemente, e ne proposero un'altra che fu rigettata dal re. Quindi si cominciava una lotta vivissima fra i difensori della libertà e il dispotismo desideroso di avere occasione di scatenare i suoi cagnotti. Tutti gli antichi sbirri quel giorno uscirono fuori, si mescolarono col popolo, e accrebbero la diffidenza con grida faziose. Si cominciarono le serraglie in Toledo e nelle vie vicine: la città era tutta commossa. I deputati fecero quanto più potevano per calmare gli animi, per trovare un modo di conciliazione; ma il tiranno, che innanzi tratto parve aderire alle domande, voleva la guerra e il macello. Verso la mezzanotte da più punti della città si seppe che le soldatesche uscivano dei quartieri, che molta cavalleria e artiglieria si schierava avanti al palazzo reale. Allora la guardia nazionale fu chiamata alle armi; allora le serraglie si fecero più spesse; allora incominciarono e il tumulto e la confusione. Una voce copriva l'altra; niuno regolava quei moti, niuno li dominava, perchè niuno li aveva preveduti; niuno sapeva il disegno di colui che gli era accanto ad innalzare le barricate: atti erano di furore per accingersi a disperata difesa contro i pretoriani del re, non disegni prefissi, concertati e diretti a mutamenti politici. Si trascinavano panche, tavole, vetture; si picchiava ad ogni uscio; molti senza ordine d'alcuno andavano a postarsi sulle terrazze, sui balconi: tutti operavano senza consiglio, ma senza proferirsi un sol grido contro la forma del governo costituzionale o contro il re stesso. Sol quando le scaglie decimavano le vite di tanti prodissimi giovani, e la più bella via di Napoli mutavano in campo di strage, allora si ripeteva a ragione: morte ai Borboni!


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