Felice Venosta
CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA
(o LA SPEDIZIONE DI SAPRI)


Pagina 22
1-5- 10-15- 20-25- 30-35- 40-45- 50-55- 60-65- 70-75- 80-84

[Indice]


     III

     Carlo Pisacane, credente che i popoli avrebbero saputo vendicarsi delle infamie di Ferdinando, non si perdè punto di coraggio; cercò di attutire il dolore da lui provato giurando che con tutte le potenze della mente e del braccio avrebbe rimeritati i tiranni delle lagrime e del sangue versato dagl'Italiani. E mantenne la promessa. Combattè sempre con estremo ardimento, con somma sapienza; e nei giorni della sconfitta colle armi della parola. Il 29 giugno, ebbe in un combattimento da una palla ferito il braccio destro, e così miseramente che, dove non fossero state le cure della sua diletta amica, da lui ritrovata a Marsiglia mentre tornava in Italia, e quelle del dottore Leone, a comune giudizio dei medici, sarebbe stato mestieri amputarglielo. Dopo trenta dì che giaceva infermo a Salò, per l'avvicinarsi dei nemici fu tratto a sicurezza in Milano. Ed era convalescente che già si affrettava ad offrire l'opera sua al Governo Provvisorio per la difesa della città minacciata dagli Austriaci. Ma coloro che reggevano allora la somma delle cose, calpestando l'onore della patria, a tutta possa si adoperavano a stancare e a fiaccare l'impeto generoso delle genti, che dappertutto volevano con guerra popolare prendere la rivincita di Custoza; onde all'offerta del Pisacane rispondevano: "non essere lui atto a battaglia, malconcio com'era: pensasse alla propria salute e raggiungesse i feriti che il precedevano." Della qual cosa egli molto si rattristò e si dolse cogli amici, dicendo: "costoro non hanno fermo proposito di resistere al nemico, nè di far opera degna di quel popolo che loro obbedisce." E fu vero.


[Pagina Precedente] - [Indice] - [Pagina Successiva]