Felice Venosta
CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA
(o LA SPEDIZIONE DI SAPRI)


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     Devoto ai principi della scuola razionalista e sociale, non esita a proclamare come "la miseria e la religione sieno i primi ausiliari dei despoti;" che stolto è il credere, che si possano salvare le nazioni "marciando alla guerra con l'insegna del privilegio e del cattolicismo," e non deve fare meraviglia se la rivoluzione del 1848 fu dappertutto sconfitta, dal momento che si ebbe dovunque la dabbenaggine di far cantare il Te Deum, e benedire la bandiera dai preti cattolici; che la religione, insomma "è l'ostacolo più potente, che si opponga al progresso dell'umanità."
     Esempio poi raro a' giorni nostri, zeppi d'uomini vantatori, il Pisacane nel libro di cui parliamo non una volta registrò il suo nome, quantunque avesse, come vedemmo, operato di molte cose tanto in Lombardia, quanto durante il memorando assedio di Roma.

     Parecchi mesi passò in fraterna dimestichezza con Carlo Cattaneo, Filippo De-Boni, Mauro Macchi e Francesco Dall'Ongaro: "e, scrive il Macchi, presto abituatomi alla cara consuetudine di sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore che sentii dentro di me il giorno in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese nativo, tutto per dividere le tribolate sorti del profugo politico: tanto forte fu l'affetto che egli aveva saputo inspirarle con le rare virtù e con la gentile persona."
     Infatti sullo scorcio del 1850, stanco di vivere sotto cielo straniero, il Pisacane recavasi a Genova, ove riunito alla donna del suo cuore, che ansiosa ivi stava ad aspettarlo, approfittò di quella calma di spirito che dona la domestica pace, e che forma il più desiderabile fra i beni di questo mondo, per dedicarsi a tutt'uomo a quegli studi, dai quali era convinto potesse esclusivamente derivare il trionfo della causa nazionale. Innanzi tratto dovette tenersi celato; imperocchè il governo gli negava di poter rimanere in Genova; ma tanto vi restò che alfine ne ottenne l'adesione. E allora, per accudire con minori distrazioni possibili agli studi suoi, ritirossi ad abitare fuor di città sull'ameno colle di Albaro, dove era soltanto visitato dai più intimi amici.


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