Felice Venosta
CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA
(o LA SPEDIZIONE DI SAPRI)


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     Passati, nel 1839, gli esami in modo luminosissimo, amante com'era pegli esercizi equestri, desiderò militare nella cavalleria. Ma non avendo potuto ottenere ciò, recavasi, come soldato gregario, nella città di Nocera, e, dopo sei mesi di tirocinio, veniva ammesso nel corpo reale del Genio napolitano col grado di sottotenente. Innanzi entrare in collegio, nel 1830, egli aveva conosciuta una fanciulla dell'età sua, della quale sin d'allora si prese. Nè il giovanile affetto fu dimenticato pelle lunghe assenze e per gli studi severi; chè anzi, sempre più crescendo, si fece amore, e più violento riarse quando, uscito della Nunziatella, egli trovava la diletta fanciulla sposa ad altro uomo. Il contrasto fra la passione e il dovere fu lungo; pure come vedremo, vinse l'amore.

     La rinomanza che non tardò guari ad acquistarsi quale ingegnere abilissimo, fece sì che il capitano Fonseca lo domandasse in aiuto a condurre la ferrovia da Napoli a Caserta. Carlo adempiè quell'ufficio con molta lode; ma i modi burberi del Fonseca mal si affacevano colla gentilezza di lui. Onde, stanco chiese di essere tolto a quei lavori. Ciò che ottenne; se non che, quasi in pena del passo fatto, veniva mandato negli Abruzzi, ove se ne stette meglio che quindici mesi. Restituito alfine alla sua Napoli, fu promosso al grado di primo tenente.
     Nel tempo in cui fu in quella città gli accadeva un caso, degno di essere ricordato. Mentre una sera, ad ora assai inoltrata, moveva alla propria abitazione, un ladro improvvisamente sboccava fuori, gli si avventava alla persona, minacciandolo di morte se non gli avesse dato quanto denaro per avventura si trovasse avere in dosso. Carlo non era tal uomo da inghiottirsi con santa rassegnazione le minaccie del ladro. Comechè inerme, a fronte d'uomo armato, non stava punto in forse, si gettava risoluto sul malandrino, e tentava vincerlo. Robusto ed agile come era, esso vi sarebbe riuscito; ma lo scellerato, vedutosi al mal partito, cavava di sotto un trincetto, e gli traeva due colpi nel petto e nel ventre. Il povero Carlo, chiesto invano soccorso a poche pietose persone, a stento, solo per forza d'animo, condottosi alla porta di casa, ivi, immerso nel proprio sangue, come corpo morto cadeva. I chirurghi, pe' quali mandò la famiglia di lui dissero che, essendo d'una ferita tocca l'ala destra del fegato, non v'era luogo a speranze di vita. Se non che il vigore singolare che aveva d'animo e di corpo, e le pietose cure della donna del cuore vinsero la forza del male; si riebbe, e sanò. Della qual cosa l'egregio chirurgo Coluzzo non rifinì di stupirsi, dicendo "esser certo il Pisacane serbato a cose grandi dal cielo, poichè tale pericolo, a nessun uomo superabile, avesse così felicemente, contro ogni giusta aspettazione, superato."


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