Federico Adamoli
LA CHIESA PERDUTA
(La vicenda della Chiesa di S. Matteo di Teramo)


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     La chiesa di San Matteo fu consacrata solennemente dal Vescovo aprutino Tommaso Alessio De Rossi il 22 aprile 1736 (come risultava dall'epigrafe esistente all'interno della chiesa presso la porta principale). Nel 1761 il campanile della chiesa, nuovamente ricostruito dopo che era stato devastato da un fulmine, fu benedetto dal Vicario Generale della diocesi aprutina G. del Giudice.
     In seguito al decreto emanato da Gioacchino Napoleone il 29 novembre 1810, il Monastero Benedettino venne soppresso insieme a tanti altri che esistevano in città e venne incamerato dal Demanio Pubblico; nel momento della soppressione il monastero - le cui fila si erano notevolmente assottigliate dopo una gravissima tragedia che nel 1745 provocò la morte di 15 suore - contava solamente sei religiose (7). Cessato il monastero il Sindaco e il Vescovo Francesco Antonio Nanni tentarono di conservare la chiesa aperta al pubblico culto, ma ciò fu impossibile perché questa avrebbe dovuto contare per il proprio mantenimento sulle offerte dei fedeli, la qual cosa non era consentita dalla legge (e per questo fu esclusa dall'elenco delle chiese da conservare).

     Nel primo decennio dell'Ottocento, all'epoca dell'occupazione militare francese, i locali della chiesa furono utilizzati come caserma delle Compagnie Dipartimentali; cessata l'occupazione il 17 luglio 1811 la chiesa venne assegnata dal Vescovo al parroco del quartiere di San Giorgio, Don Timoteo Vagnon. In quegli anni vennero trasferite nell'ex-monastero, attiguo alla chiesa, le scuole secondarie di quell'epoca e vi fu poi istituito il Real Collegio.

(7) Un altro avvenimento di rilievo, di natura scandalistica, che riguardò il Monastero di San Matteo si verificò nel 1777, sotto il vescovato di Luigi Maria Pinelli, e ci viene descritto dal Palma: «Fin dall'Agosto 1776, Monsig. Sambiase avea introdotto nel Monastero di S. Matteo tre Napolitane, di cognome Bronsuoli. Le Monache le aveano ammesse al noviziato: ma in seguito di loro mal contente, più volte pregarono Pinelli a toglierle: segnatamente dopo che congregate in capitolo ai 22 Dicembre 1777 le aveano a maggioranza de' voti escluse dalla professione. L'indolenza, o vera o apparente, di Monsignore, indusse sette Monache ad un passo stravagante. Ad ore 11 del dì detto, uscite dalla clausura con croce inalberata, si recarono alla vicina chiesa di S. Giorgio, donde inviarono lettere al Preside, all'Avvocato de' Poveri Sig. Marcello Pompetti, ed ai pubblici Rappresentanti, nelle quali protestavansi di voler rientrare nel chiostro subito che ne fossero estratte le Bronsuoli. Le rimostranze del loro Confessore P. Eugenio da Civitella Esprovinciale Cappuccino, quelle di parecchie gentildonne, dell'Avvocato de' Poveri, del Preside, e (un poco tardi) del Vescovo, furono per tutto il dì 29 gittate al vento. Sicchè all'indomani si vide Pinelli obbligato ad estrarre, di concerto col Tribunale, le Bronsuoli dal Monastero, ove le sette Monache rientrarono incontanente. S'egli fosse divampato di sdegno, ben il crede chiunque ha conosciuto l'accendibile suo temperamento. Supponendo che l'uscita delle Monache non fosse stata senza consulenti e senza cooperatori, con relazioni ai Ministeri, e con segreta insistenza presso l'Assessore di lui amico, condensò un turbine assai minaccevole a danno di quattro distinti gentiluomini [nda: in realtà erano cinque: Melchiorre Delfico, Alessio e Francesco Saverio Tullij, Andrea Sardella e G.B. Thaulero. Cfr: Niccola Palma, "Storia della città e diocesi di Teramo", volume terzo, nota pag. 491, edizione della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, 1980] e di qualche altro, ai quali bisognò rimaner latitanti o emigrare dal Regno per un tempo, ond'evitare la carcerazione. Nel corso delle informazioni prese dal Tribunale o (per dir meglio) dall'Assessore, delle due più ardenti Monache una venne traslocata al Monastero di Campli, l'altra a quello di Civitella. Avverso il decretato arresto de' prevenuti prodotto venne gravame in Vicarìa: ed avverso l'Assessore presentati furono ventiquattro capi di sospicione nella Regal Camera, la ventilazione de' quali diè luogo ad animate e dotte Scritture, pro e contra, date alle stampe. Fu della saggezza del Re e de' suoi Ministri il porre un termine a sì odiose discettazioni, ed il comandare che s'imponesse alla causa perpetuo silenzio: che le Religiose traslocate tornassero al proprio Monastero: e che si ammettessero ad indulto gl'imputati. Non piacque a costoro l'ultima parte, e supplicarono il Sovrano a rivocarla, chiedendo istantaneamente di esser giudicati ritualmente a tenore delle leggi. Ma il Re rimase fermo nell'adottato temperamento. Se gli odj radicati in quella occasione si estinguessero con facilità, non occorre esaminarlo». (Niccola Palma, opera citata, volume III, 1833, pagg. 232-233).


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