Goethe disse una volta che la Canzone dei Nibelunghi gli produceva un senso di orrore, perchè nessun mondo soprannaturale possente e benigno non interveniva a sanare gli errori degli uomini. E ciò è vero: la poesia germanica, al tempo della trasmigrazione dei popoli, non conosce divinità che imperino sagge e temperanti sugli uomini; sopra questa poesia incombe solo come massima potenza il destino cupo e inesorabile.
Esso spinge gli eroi gli uni contro gli altri e nella morte; esso esige da loro le mostruose prove del coraggio, della fedeltà e del sacrificio, e poi li lascia perire per opera del tradimento o della vendetta.
Dall'antico tedesco la Canzone dei Nibelunghi fu spesso parzialmente e interamente tradotta. La traduzione migliore è, per consenso unanime, quella di Carlo Simrock, che mantiene la verseggiatura dell'originale, cioè la caratteristica strofa nibelungica, composta di quattro versi, ciascuno diviso in due emistichi, nettamente separati dalla cesura. Ogni emistichio dei primi tre versi ha tre arsi, mentre il secondo emistichio dell'ultimo ne ha quattro. Sono, in sostanza, tetrapodi cattalettici e brachicattalettici. La rima è accoppiata come negli alessandrini.
Il presente traduttore italiano alterna alla prosa alcune strofe, nei punti più notevoli, per rendere almeno approssimativamente l'armonia della forma arcaica, che suona un po' ostica a orecchi latini.
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Dopo il riconoscimento del Cristianesimo, il canto degli antichi dèi era ammutolito; non si parlava più di Wotan, di Donar, di Zin; ma si continuava sempre il canto degli eroi, dei vecchi capi di popoli. La leggenda di Siegfried, l'uccisore di draghi, il luminoso eroe, che ancora fanciullo si forgia da sè la sua formidabile spada, Balmung, nella fucina dell'infido fabbro incantatore, nel bosco profondo, e percuote quindi il drago Fafnir, custode dell'oro, e libera la valchiria Brunilde, la vergine battagliera, dal castello di fiamme, e infine perde la vita per tradimento, ci riporta a un'epoca remotissima.
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