"Non c'è problema: non mi farò vedere. Resterò invisibile accanto a voi, per proteggervi."
La soluzione piacque molto a Tripitaka. Porcellino e Sabbioso furono incaricati di custodire cavallo e bagagli. L'oste li venne a salutare e notò com'era elegante Tripitaka:
Drappeggiato d'un kasâya orlato di broccato e adorno di esotici gioielli, in capo un berretto alla Vairocana, in pugno il bastone con nove anelli. Reca in mano una busta di seta che contiene i documenti. Una luce divina aleggia intorno a lui. Sembra un arhat disceso in terra, una vera immagine del Buddha vivente.
L'oste non trascurò di bisbigliargli all'orecchio un nuovo avvertimento a non immischiarsi nei fatti che non lo riguardavano, e il monaco cinese lo rassicurò con un cenno del capo. Da parte sua Scimmiotto, che se ne stava da parte, si mutò in un jaoliao e si posò ronzando sul berretto alla Vairocana.
Quando giunsero all'ingresso del palazzo, Tripitaka si rivolse all'ufficiale di guardia: "L'umile monaco che vedete è stato inviato dai grandi Tang delle terre dell'Est alla ricerca delle scritture nel Paradiso dell'Ovest. Giunto nella vostra nobile contrada, sento il dovere di presentare il passaporto. A questo scopo vorrei recarmi all'udienza di sua maestà: vi supplico di trasmettere la mia richiesta."
L'ufficiale eseguì, e il re si rallegrò esclamando: "Un monaco che viene da tanto lontano ha certo conseguito la Via!"
Tripitaka eseguì le cerimonie prescritte ai piedi dei gradini di giada e fu invitato a sedere. Osservò com'era emaciato e spossato il re: faceva fatica a giungere le mani per salutare, gli si spezzava ripetutamente la voce. Prese in mano il passaporto di Tripitaka e i suoi occhi torbidi a lungo vi vagarono sopra, prima che si decidesse ad apporre il sigillo reale e a restituirlo.
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