Declamando la sua elegia, il reverendo attirò l'attenzione di una persona che abitava nel monastero, un inserviente addetto a bruciare l'incenso. Si era già coricato; l'inattesa voce umana lo svegliò e lo indusse a raccogliere da terra una scheggia di tegola e a tirarla contro la campana.
Il suono improvviso spaventò il reverendo, che pensò di fuggire, ma inciampò in certe radici e cadde esclamando: "Campana!
Lamentavo la tua sorte, e tu mi hai risposto. Su questa strada dell'Occidente, che nessuno percorre, nel lungo decorso degli anni sei divenuta un fantasma."
L'inserviente accorse e lo aiutò a rialzarsi: "Tiratevi su, reverendo. La campana non è diventata un fantasma, l'ho suonata io."
Tripitaka guardò quella brutta faccia scura: "Non sarai uno gnomo, o un diavolo dei boschi? Bada che io non sono un viandante qualsiasi, ma un inviato imperiale, accompagnato da discepoli capaci di abbattere tigri e domare draghi. Se ti misurassi con loro, correresti dei brutti rischi."
"Ma no, reverendo" rispose l'uomo inginocchiandosi. "Non sono una creatura malefica, ma un inserviente del monastero, addetto a bruciare l'incenso. Poco fa, quando ho sentito le vostre belle parole, il mio impulso è stato di uscire ad accogliervi; ma ho temuto che poteste essere un diavolo sotto mentite spoglie e, per farmi coraggio, ho suonato la campana."
Il monaco cinese si rinfrancò: "Quasi morivo di paura, caro inserviente. Fammi visitare gli edifici."
L'inserviente guidò Tripitaka nella terza corte, dove lo spettacolo era completamente diverso. Si vedevano
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