Il monaco fece aprire le porte da un inserviente e invitò Tripitaka a pregare. Scimmiotto legò il cavallo, mise a terra i bagagli e lo accompagnò. Tripitaka, lungo disteso, batteva la testa per terra davanti all'immagine di Guanyin, mentre il monaco percuoteva il tamburo e Scimmiotto suonava la campana. Prostrato davanti all'altare, Tripitaka riversava il suo cuore nelle preghiere. Quando finì, il monaco depose il tamburo, ma il Novizio continuava a scampanare senza fermarsi, ora a tutta forza, ora piano.
"La preghiera è finita, non serve più suonare" gli disse l'inserviente. Infine il Novizio si decise a posare il batacchio di legno e rispose ridendo: "Non capisci niente. Applico il proverbio: chi fa il monaco, batte campana."
Intanto tutto il monastero era sottosopra; giovani e vecchi, monaci e monacelli, reverendi delle celle di sopra e di quelle di sotto, tutti uscirono al gran fracasso chiedendo: "Chi è questo selvaggio che sta pestando campane e tamburi?"
Scimmiotto balzò fuori dalla sala e sbottò a ridere: "Sono io, il nonnetto delle vostre mogli, che mi diverto a suonarvi le campane."
Non appena lo videro i monaci furono presi dal panico, tremavano, cadevano a terra e rotolavano da tutte le parti, gridando di paura: "Il Cielo ci scampi, è nostro signore il padre del tuono!"
"Veramente il tuono è solo il mio bisnipotino" rispose Scimmiotto. "In piedi, alzatevi! Siamo dei signori venuti dal paese dei grandi Tang, nell'Est."
I monaci si decisero a salutarlo, ma si sentirono un po' rassicurati solo quando videro Tripitaka. Fra loro avanzò il superiore del monastero e li invitò a bere il tè nella sua cella, sul lato posteriore.
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