"Sono dunque diecimila li. Il vostro discepolo è vissuto invano, perché non è mai uscito dalle mura di questo monastero. È il caso di dirlo, si è accontentato di restar seduto a contemplare il mondo dal fondo del pozzo. Sono proprio un inutile pezzo di legno marcio."
"Qual'è il numero dei vostri nobili anni?"
"Ho raggiunto il duecento sessantesimo anno, senza perdere la mia innata stupidità."
"Fate conto di essere un mio nipotino della decimillesima generazione" intervenne Scimmiotto.
Tripitaka lo guardò di traverso: "Bada come parli. Non si apostrofano così le persone, senza riguardo al loro rango."
Il patriarca si rivolse a Scimmiotto: "E la vostra età qual'è?"
"Non oso dirvela."
Il vecchio credette che fosse uno scherzo e, senza insistere, ordinò il tè. Un ragazzo recò, su un vassoio di giada candido come grasso di montone, tre coppe franche damaschinate d'oro. Un altro ragazzo reggeva una teiera di metallo bianco; ne versò un tè profumato, più vellutato dei boccioli di melograno e più fragrante dei fiori di cannella.
"Che begli oggetti! E la bevanda è degna del recipiente!" esclamava Tripitaka lodandoli senza fine.
"Sono oggetti che offuscano la vista e imbrattano lo sguardo" rispose modestamente il patriarca. "Non mancano certo prodotti rari e preziosi nel paese della corte celeste da cui vengono le vostre signorie. Questi recipienti non meritano tanti elogi. Non avete da mostrare qualche tesoro del nobile paese da cui venite?"
"Sono desolato, le nostre terre dell'Est non hanno alcun tesoro degno di menzione. E se ci fosse, la strada sarebbe troppo lunga per portarselo dietro."
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