Infatti vi si precipitarono, e trovarono la porta aperta.
"Ma io l'avevo chiusa" si spaventò Vento Puro. "Che cos'è successo qui?"
Attraversarono di corsa il giardino, e trovarono aperta anche la porta dell'orto. Si precipitarono nel posto del ginseng e, naso all'aria, si misero a contare i frutti che pendevano dall'albero. Rifecero il conto in senso orario e nell'altro senso, ma non riuscivano a vedere più di ventidue frutti.
"Te ne intendi di conti?" chiese Chiaro di Luna.
"La contabilità un po' la conosco" rispose Vento Puro. "Vediamo di ricapitolare.
"In partenza c'erano trenta frutti. All'inaugurazione del parco, il maestro ne fece staccare due; così ne rimanevano ventotto. Due li abbiamo colti noi poco fa per il monaco cinese: dovrebbero restarne ventisei. Invece non se ne vedono più di ventidue. Questo vuol dire che ne mancano quattro, giusto? Non può essere stata che quella banda di furfanti. Andiamo a dire il fatto suo al monaco cinese."
Corsero dritti dal giardino alla sala grande. Tesero contro l'interdetto Tripitaka il dito accusatore e lo trattarono di crapa pelata, di topastro rubalardo, di tutto quello che gli venne in mente; una bella litania di insulti piuttosto volgari, che Tripitaka a un certo punto interruppe dicendo: "Ragazzi miei, che cosa vi salta in mente? Cercate di calmarvi. Se avete qualcosa da dirmi, spero che potrete trovare un modo civile per farmelo sapere. Ma, di grazia, smettete di parlare a vanvera."
"Sei sordo?" gridò Vento Puro. "Noi parleremmo a vanvera, come barbari? Ma tu i frutti di ginseng li hai rubati! Non penserai mica di farci tacere!"
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