"Non lo reciterò più" promise Tripitaka.
"Si fa presto a dirlo. Ma prima o poi vi troverete in difficoltà, alle prese con chissà quali diavoli, scoprirete che Porcellino e Sabbioso non sapranno liberarvi e penserete a me, vorrete chiamarmi. Allora finirete per recitarlo, l'incantesimo, e anche alla distanza di centomila li mi sentirò scoppiare la testa. Se deve succedere qualcosa del genere, tanto vale che rinunciate ad allontanarmi."
Questa insistenza portò Tripitaka all'esasperazione. Balzò giù dalla sella, chiese a Sabbioso carta e pennello, stemperò un po' d'inchiostro in acqua del ruscello e scrisse una formale lettera di licenziamento, che tese a Scimmiotto dicendo: "Tieni, zuccone, qui hai tutti i certificati che vuoi. Non voglio più saperne di te come discepolo. Se mai ti richiamassi, che io sia precipitato in fondo al diciottesimo inferno!"
"Maestro, è sempre meglio non fare simili giuramenti" replicò Scimmiotto prendendo la lettera. "Dunque me ne vado."
Piegò il foglio, se lo mise nella manica e fece un ultimo tentativo per ammansire Tripitaka: "Maestro, vi ho seguito fin qui anche perché me lo aveva detto la pusa Guanyin. Visto che devo andarmene senza concludere il mio compito, vi prego, almeno sedetevi e ricevete i miei omaggi, in modo che me ne possa andare più sereno."
Il monaco cinese gli voltava le spalle e brontolava: "Io sono una persona perbene, non voglio l'omaggio di un malvagio come te."
Se volle venirne a capo, Scimmiotto dovette ricorrere alla moltiplicazione della persona: strappò tre peli e li trasformò in altrettanti sosia. I quattro Scimmiotti (contando anche quello autentico) circondarono il maestro e gli resero omaggio da ogni parte, tanto che il reverendo non lo poté ricusare.
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