"Non li ho proprio toccati" assicurò Scimmiotto, "e lo potete constatare: son tutti vivi."
Bisognò insistere perché i monaci si alzassero: chi corse a prendere le briglie del cavallo, chi si caricò dei bagagli, chi sollevò su una sedia gestatoria il monaco cinese, chi si prese in spalla Porcellino, chi prese Sabbioso per mano. La folla li guidò all'interno, verso la residenza del superiore, dove tutti presero posto.
I monaci ricominciavano cerimonie e saluti, quando Tripitaka prese la parola: "Vi prego, superiore, rialzatevi. Tregua alle cortesie, voi viziate il povero monaco che sono. Voi e io siamo pur discepoli del Buddha."
"Vostra signoria è l'inviato imperiale di un paese sovrano, e io sono venuto meno ai miei doveri di ospitalità. Quando vi siete presentato sulla nostra montagna desolata, i miei occhi volgari non hanno saputo riconoscere la vostra eminente dignità, né apprezzare la fortuna di questo incontro inatteso. Mi è permesso rivolgere a vostra signoria una domanda? Durante il vostro viaggio mangiate di magro o no? Dovremmo preparare il banchetto."
"Certo, mangiamo di magro."
"Non così i vostri discepoli?"
"Mangiamo di magro anche noi" replicò Scimmiotto, "fin da prima di nascere."
"Davvero, monsignore, questi omaccioni mangiano di magro?"
Un bonzo più temerario degli altri si fece avanti per domandare: "È lecito chiedere quanto riso bisogna mettere al fuoco?"
"Che domande!" intervenne Porcellino. "Ne basterà un quintale, ignoranti!"
I monaci si affrettarono a nettare vasi e fornelli, ciascuno si impegnò nella preparazione del pasto. Si portarono lampade accese, si disposero tavoli e seggiole, per convitare adeguatamente il monaco cinese.
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