Scimmiotto si sentiva diviso fra il compiacimento e il dispetto. Lo lusingava che i celesti gli facessero pubblicità, ma trovava seccante e imprudente che quel vecchio impunito del dio di Venere descrivesse la sua vera immagine a chiunque volesse ascoltarlo. Finì per dichiarare: "Va bene, va bene, non sono Scimmiotto ma soltanto uno del seguito; e sono venuto qui a far catastrofi tanto per passare il tempo. Ma guardate laggiù; non è lui quello che viene?"
Additò l'est e, mentre essi volgevano la testa, riprese il proprio aspetto. Allora la folla dei monaci lo riconobbe e lo salutò inchinandosi fino a terra: "Non abbiamo saputo riconoscere le trasformazioni di vostra signoria, ma speriamo che non ce ne voglia. Speriamo anche che vorrà cancellare i torti che abbiamo subito, ed entrare in città per eliminare la perversità e ristabilire la rettitudine."
"Venite con me."
Il grande santo salì sul colle, con tutti i monaci che gli si affollavano alle calcagna, sollevò magicamente il carro fino alla cima e lo buttò giù dall'altra parte, mandandolo a fracassarsi con il suo contenuto di mattoni, tegole e assi. Poi gridò ai monaci: "Fate largo, non mi state sempre appiccicati! Domani andrò a vedere questo monarca e farò piazza pulita dei daoshi."
"Vedete, vostra signoria: non osiamo allontanarci da voi, perché abbiamo paura di essere presi e arrestati. Ci batterebbero e ci venderebbero al mercato, sarebbero nuove sofferenze senza fine."
"Va bene, vi procurerò io una protezione."
Il bravo Scimmiotto si strappò un ciuffo di peli, li spezzò con i denti in piccoli frammenti e ne diede uno a ogni monaco con queste istruzioni: "Fatelo scivolare sotto l'unghia del dito anulare, stringete il pugno e andatevene in giro tranquilli. Se nessuno vi ferma, tanto meglio. Altrimenti non avete che da chiamare: 'Grande santo!', e io verrò a proteggervi."
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