"Saranno ancora a letto, per paura del freddo" si disse il bestione. Salì dunque le scale a gran passi, ignorando la buona regola che vieta di passare senza invito dall'area di ricevimento all'area privata della casa. Alzò disinvoltamente le cortine, ma fu colto di sorpresa: su un grande letto d'avorio giaceva un gigantesco scheletro candido, il cranio grande come un moggio, tibie e femori lunghi quattro o cinque piedi.
A Porcellino girò la testa, gli caddero lacrime dagli occhi. Lasciò ricadere la cortina scuotendo il capo, e si chiese: "Chi sarà stato?
Maresciallo di quale dinastia?
Gran capitano di quale paese?
Di vittoria in vittoria tu volavi,
Ora ti sei ridotto a bianche ossa.
Né donna né bambino ti accudiscono,
I soldati non ti offrono l'incenso.
La potenza che in vita perseguivi
Ha questa conclusione desolata."
Giunse agli occhi lacrimosi di Porcellino un riflesso di fiamma dietro i tendaggi. "Si direbbe che qualcuno stia bruciando incenso." Andò a vedere, ma si rese conto che era soltanto la luce del giorno filtrata dai vetri colorati di una finestra. Ai suoi piedi c'era un tavolino laccato su cui erano posate tre giubbe di broccato foderate di seta.
Senza il minimo scrupolo se ne impadronì, ridiscese le scale e ritornò all'ingresso.
"Maestro" disse a Tripitaka, "là dentro non c'è segno di vita: è la casa delle anime morte. Sono entrato in un padiglione e non ho visto altro che uno scheletro dietro certe cortine di mussola gialla. Di passata mi son preso queste tre belle giubbe foderate. È un vero colpo di fortuna, ci proteggeranno dal freddo. Levatevi la tonaca e infilate questa, che è molto più calda: approfittatene."
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